QUANDO LA STORIA DIVENTA FUTURO

"gLOVEme è un marchio, ma anche una parola che scatta una foto sulla mia vita, dalle mie radici alla mia formazione umana e professionale negli anni".

Ho capito cos’era un guanto in pelle verso i cinque anni, quando ne ho sentito l’odore e visto le pelli tinte non ancora tagliate in un laboratorio in cui mi aveva portato mio padre, che si era reinventato guantaio a poco più di vent’anni, con ingegno e coraggio.

 



 

Il laboratorio era ricavato in un appartamento di un palazzo del centro storico di Napoli ogni stanza era adibita ad una fase della produzione e Salvatore -  il mastro guantaio, socio di papà -  mi regalò un bellissimo paio di guanti rossi foderati in lapin.

Il profumo della pelle, il colore acceso - il rosso, da sempre il mio preferito - e la morbidezza della fodera, sono un ricordo sensoriale ancora ben impresso nella mia memoria

 

Ho preso consapevolezza presto del carattere speciale del guanto artigianale in pelle.





Eppure i miei primi passi nel mondo del lavoro non sono stati diretti: mi sono dedicato per circa dieci anni alle firme dell’abbigliamento intorno a cui all’inizio degli anni ‘90 stava nascendo un nuovo tipo di distribuzione. Gli stock house stavano diventando la nuova opportunità e mi attraeva la dinamicità di questo mondo, come si esprimeva nelle trattative con i fornitori o nei rapporti con i clienti, la cui voglia di prodotti firmati sembrava non si esaurisse mai.

Ma ciò che ho tesaurizzato di quell’esperienza è stato soprattutto l’imparare a conoscere ed apprezzare le griffe, non tanto in quanto oggetto del desiderio di milioni di consumatori, ma, appunto, forte del mio vissuto, anche come storia delle maison e dei loro fondatori che con la semplice passione per un prodotto ed uno sguardo innovatore, avevano saputo creare un qualcosa di conosciuto ed apprezzato nel mondo.

Gli ingredienti iniziarono ad amalgamarsi presto per dar vita al sogno di creare un marchio con cui provare a scrivere un pezzetto della storia dell’ accessorio in fondo a me più familiare. Si trattava di darne una mia personale visione che portasse a percepirlo in modo nuovo.

E di darle un nome.



Ho iniziato ad informarmi e a pensare che un marchio può essere un acronimo, può indicare il nome del fondatore o può far riferimento al prodotto che rappresenta.

Ma quale doveva essere il mio?

Vivo in una provincia geograficamente estrema la cui bellezza ha da sempre attirato personaggi illustri e che tuttora ospita persone speciali.

Per il mio progetto mi sono rivolto a Simona, grafica di professione con base anche a Torino che cura l’immagine di brand di prestigio. In un paio di incontri a casa sua, in un’atmosfera conviviale e a cui erano presenti anche altri amici, le ho esposto il mio progetto: un negoziodi guanti di rigoroso artigianato napoletano, presentati in un modo diverso, un luogo vivo di colore dove il prodotto non apparisse solo come qualcosa di classico, ma si facesse notare in tutto il suo moderno splendore.I tentativi durante quelle riunioni di dare un nome al mio progetto furono i più disparati, ma alcuni giorni dopo Simona mi invitò in un bar per un aperitivo, aveva avuto un’idea che pensava potesse piacermi.

Devo ammettere che lo scetticismo era tanto, perché non riuscivo ad immaginare qualcosa che potesse soddisfare tutte le mie aspettative. Ma, seduti al tavolino del bar, Simona prende un tovagliolino dal dispenser, tira fuori una bic dalla borsa e scrive. Prima una g, così, in minuscolo.Poi ci aggiunge LOVE in maiuscolo e infine un me.

Lo legge, gloveme. E lo traduce anche, guantami.

 

Ci ho messo giusto qualche secondo, prima a sentirmi stupido, perché quella parola, glove, l’avevo avuta davanti agli occhi tutta la vita e non mi era mai venuto in mente di poterla declinare in modo così originale.

E poi ad essere felice perché quella parola già mi apparteneva e volevo chediventasse la griffe del mio sogno.»

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